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Categoria: Abbazia di Casamari
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L’abbazia di Casamari, come tanti altri monasteri benedettini, era attrezzata già nei tempi antichi alla cura dei malati.


herbarium botanicum
L’ erbario era indispensabile per far fronte a qualsiasi problema riguardante la salute. Si trattava di un locale - non molto spazioso in origine - in cui venivano conservate e manipolate le erbe medicinali raccolte nella campagna. Quando si pensa all’erbario, emerge dalla coscienza l’immagine del vecchio monaco che, ogni giorno, verso il tramonto, si inerpicava solo per la collina assolata, ricoperta di olivi, fermandosi ad ogni tratto, indugiando ad ogni cespuglio, indagando per ogni siepe e per ogni zolla.
Conoscitore esperto di mille piante, andava in cerca di quelle, le cui virtù medicinali le rendessero adatte per manipolazioni ed infusi. Discesa la sera, egli rientrava nel monastero con le ceste piene di erbe, di foglie, di radici e di bacche: ruta, genziana, assenzio, stramonio, gramigna, equiseto, ecc.
Con queste e cento altre specie di erbe, secondo le stagioni, il monaco si chiudeva nel suo piccolo laboratorio e, nelle ore libere dalla preghiera comune, tra alambicchi e mortai, filtri e fornelli, manipolava i suoi medicamenti.
Era aiutato da un altro con fratello più giovane, cui egli affidava man mano i segreti delle sue ricette e delle sue formule prodigiose.
Ben presto, però i monaci presero a coltivare in un angolo della clausura le piante dalle virtù particolarmente curative. Fu così che nacque il cosiddetto hortus botanicus (o botanicum herbarium), oppure, con termine più moderno, orto dei semplici, che, però ebbe ufficialmente tale nome e una formula ben definita a partire dal Rinascimento.
A Casamari, fino agli anni ‘60 del secolo passato, i monaci curavano la coltivazione di piante e di erbe aromatiche e medicinali (i semplici) nel giardino situato dietro la chiesa. Oggi esso si chiama "giardino dei novizi", poiché per vari decenni la sua cura è stato compito esclusivo dei giovani aspiranti alla vita monacale. Vi crescono ancora spontaneamente alcune piante, quasi a testimoniare l’uso che se ne faceva in passato.
Per la conservazione, dopo l’essiccazione in ambiente ben aerato, esisteva nei tempi più remoti un armarium pigmentariorum, vale a dire un armadio dalla robusta struttura, chiuso in modo tale da non lasciar filtrare troppa aria ne, soprattutto, luce, perché le erbe mantenessero inalterate le loro proprietà terapeutiche. Col passar del tempo, il locale fu arricchito di graticci, vasi, ampolle ecc. Di tutto questo, oggi, non esiste più nulla, se non la documentazione fissata su alcuni manoscritti ingialliti dal tempo, depositati in archivio.
E’ incerta la data di apertura al pubblico della farmacia di Casamari. Tra le varie proposte, ci pare la più attendibile quella dello storico cistercense D. Mauro Cassoni, il quale afferma: "anno 1760. Si apre la farmacia di Casamari dal P. Priore D. Gioacchino Castiati". Si trattava, ovviamente, di piccola bottega al servizio prima di tutto dell’infermeria dell’abbazia e, poi, di una ristretta area delle campagne e dei paesetti circonvicini, i cui abitanti potevano acquistarvi medicinali e, tasche permettendo, qualche delizioso liquore.

La farmacia del P. Castiati era situata nel già menzionato "giardino dei novizi". Nei documenti superstiti, ci viene segnalato ancora esistente almeno fino alla soppressione napoleonica (1811-14). Quel che fu di essa in quegli anni, ci è ignoto.

Pare, invece, sicura la data di costruzione di una nuova e più ampia farmacia da parte dell'abate Romualdo Pirelli (1790-1822), in luogo più facilmente accessibile al pubblico. Essa si trovava nell'attuale rettangolo verde sottostante alle finestre del museo e consisteva di due ampie sale - l'una per spaccio di liquori e medicinali e l'altra per la manipolazione dei farmaci - e di altri piccoli vani. Ottenne l'ufficiale riconoscimento, con relativa autorizzazione di esercizio pubblico, a tutti gli effetti di legge, nel 1821, dopo che il fratello Giacobbe Margiore ebbe conseguito la Patente di Speziale in Roma.

Oggi, lo spaccio dei farmaci e quello dei liquori occupano due distinti locali.
La farmacia vera e propria, diretta da un monaco, è in prossimità dell'ingresso all'abbazia. Consta di tre vani: il primo, quello della vendita dei farmaci, è ampio e luminoso, della grandezza di m. 7 x 7, rivestito tutt'intorno da scaffali in legno e vetro di artigiani toscani. Un bancone lungo, situato su un lato, serve per la consegna dei farmaci al pubblico. Dietro il bancone, una porta dà l'accesso al laboratorio, moderno, piccolo ma luminoso; e sulla parete di fronte, un'altra porta dà l'accesso ad un magazzino.

La superstite documentazione antica non ci consente di conoscere con esattezza l'ubicazione, le dimensioni e il funzionamento del valetudinarium e del nosocomium (= xenodochium) di Casamari, ma non lascia alcun dubbio circa la loro esistenza. A quanto pare, la nostra abbazia gestiva non una sola, ma più strutture destinate all'assistenza dei malati, interni ed esterni.

Una "Descrizione dell'abbazia di Casamari del 1634" così recita: "Sopra verso li Monti vi sono molte ruine dove dicono che anticamente erano stanze et habitationi dell'abate, quali oggi sono tutte scoperte e ruinate, fra le quali vi è una stanza lunghissima dove per prima era l'ospitale".
Settanta anni più tardi, lo storico di Casamari Rondinini, nei suoi scritti, parlava non solo di un valetudinarium, cioè di una infermeria, ma anche di un nosocomium, di un ospedale vero e proprio, che nel 1706 erano completamente distrutti: "Valetudinarium, nosocomium, ceteraque monasterii domicilia penitus eversa sunt (l'infermeria, l'ospedale, e gli altri alloggi del monastero sono completamente distrutti)".
Uno scrittore più vicino a noi, D. Eugenio Fusciardi, ci aiuta ad individuare l'ubicazione del valetudinarium: "Dalla pianta dell'abbazia si vede [...] il dormitorio, la chiesa, l'infermeria, la casa dell'amministrazione [...]. Ad oriente si scorge ancora una vasta zona di terreno racchiusa da mura: è qui dove si vedono ancora i ruderi di un vasto valetudinarium per i monaci infermi. Ottimo ne era il luogo, bene esposto ai raggi del sole e separato dal resto dell'abitato. Da questo luogo ammiriamo l'abside della chiesa con i suoi poderosi contrafforti che ne sostengono le mura". Si trovava, dunque, nell'area in cui l'infermeria è ancora oggi, ma spostata più a nord.
Un documento del 28 dicembre 1227, ci dà la preziosa notizia della costruzione di un nosocomium un po' discosto dal monastero. L'abate del tempo acquistò nel territorio di Veroli, contrada Scannacapra, un appezzamento di terra "ad utilitatem inftrmariae quae est posita a ttibus lateribus infra terras Casaemarii" (per la dotazione di un ospedale ubicato a tre leghe fra i possessi di Casamari).

Questa testimonianza è molto interessante, poiché ci assicura che in Casamari esisteva una tradizione di assistenza agli infermi fin dalla sua fondazione; tradizione particolarmente legata alla Regola di san Benedetto, la quale, al capitolo XXXVI, precisa: "Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est, ut sicut revera Christo, ita eis serviatur [..] Ergo cura maxima sit Abbati ne aliquam negligentiam patiantur" (Degl'infermi si deve aver cura prima di tutto e a preferenza d'ogni altra cosa, sicché davvero si serva a loro come a Cristo in persona [...]. Quindi l'abate curi con somma attenzione che non abbiano a soffrire qualche negligenza).
E cosa si faceva in concreto per prestare le cure al malato in un centro cistercense di assistenza? Si sceglieva un monaco, particolarmente preparato per la coltivazione, per la selezione e per la conservazione delle erbe medicinali - che poi fu chiamato monachus infirmarius - il quale rappresentava in nuce, ad un tempo, il farmacologo, il medico e lo speziale di oggi.
A lui era affidato l' armarium pigmentariorum, l'assegnazione e, il più delle volte, anche la somministrazione dei medicamenti. Con il passar del tempo e con l'ampliarsi dei centri di assistenza, egli era affiancato da altri confratelli, "timorati di Dio" e capaci, come prevede la Regola (c. XXXVI).

Nel monasteri c'era un locale detto Foresteria che era adibito al ricevimento dei viandanti. La foresteria che veniva costruito accanto alla dimora dell'Abate, consisteva in una sala da pranzo, dove l'Abate stesso prendeva i posti assieme agli ospiti e provvedere alla cura dei pazienti esterni, compresi gli psicopatici. Le infermerie monastiche raggiunsero talvolta ragguardevoli dimensioni. Gli statuti dei monasteri cistercensi ricordano spesso l'infermeria riservata al poveri Infirmarium pauperum; inoltre i conventi erano spesso forniti di appositi edifici per l'isolamento e la cura dei lebbrosi e degli appestati. I medici-monaci potevano uscire dal convento soltanto per curare gli ammalati che si trovavano nelle immediate vicinanze, ed era loro vietato il pernottamento fuori sede, L'attività medico cistercense è stata sempre molto intensa e ne abbiamo numerose testimonianze.

Dagli statuti dei Capitoli Generali si rileva che anche i vescovi facevano ricorso ai monaci cistercensi per avere nei loro ospedali diocesani degli esperti nell'arte sanitario, Nell'abbazia di San Galgano (Siena) fondata da Casamari in poco più di trent'anni e cioè dal 1255 al 1288, notiamo la presenza di ben cinque monaci qualificati con il titolo di "medicus". E' da ricordare anche il monaco cistercense Arnaldo da Villanova, che era medico di Bonifacio VII ed era anche un famoso alchimista. Al Boccone si deve la prima classificazione di un gran numero di piante, per cui è considerato il fondatore della flora europea. I monasteri, fin dalla nascita dei monachesimo cristiano in Egitto ed in Siria, furono messi a disposizione dei poveri, dei pellegrini, dei bisognosi in genere e soprattutto degli infermi. Sotto questo aspetto ebbero una grande importanza non soltanto per la carità cristiana, ma anche per lo studio della medicina e delle scienze naturali, ed in particolare per la difesa e la diffusione della cultura medica nei secoli delle barbarie. Nella costruzione dei monasteri si pensava a trovare lo spazio per gli asili, per le infermerie, per gli xenodochi, che, talvolta erano ospedali veri e propri, come lo xenodochio di San Sansone, fondato a Bisanzio. Grande importanza, anche politica, acquistavano quel centri monastici in luoghi malarici, non esclusa l'opera di risanamento prestata dai monaci: ne è esempio, vicino a Roma, l'abbazia di Fossanova, fatta segno di speciale benevolenza da parte dei numerosi Pontefici, e massimamente da Innocenzo III. L'attività medica dei monaci cistercensi va inquadrato pertanto in questa seconda tradizione, attività che, ovviamente, si è ispirata non soltanto alla Regola di San Benedetto, ma ha rispettato quanto mano a mano nei secoli veniva deciso dai Concili, dai Papi e dalle autorità laiche.

dal progetto: Insegnare nell'ambiente - Scuola Media "G.Mazzini", Veroli

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